L’intervista è stata condotta telefonicamente l’11 agosto 2021.
Mi è pesato nei primissimi anni dopo Jack Frusciante, nel senso che
pubblicare un libro totalmente diverso come Bastogne o Tre
ragazzi immaginari e sentirlo sempre associato a Jack
Frusciante mi stava un po’ sui coglioni. Col passare del tempo è una
faccenda con cui ho abbondantemente fatto la pace, nel senso che per come è
organizzato il sistema dell’informazione oggi – in maniera molto
orizzontale, molto poco approfondita – essenzialmente o sei l’autore di
“Titolo X/Y” o sei qualcuno di cui la gente dice «E chi cazzo è
questo?». C’è una sorta di fastidio verso chi non è già conosciuto; è come
se chi ha fatto qualcosa prima che cominciasse l’epoca dei social
fosse in qualche modo consacrato con quello che ha fatto prima e chi è
arrivato dopo invece debba seguire, per avere una notorietà pubblica,
tutt’altri canali. Quindi mi dà un tono rétro che mi piace, alla
fine.
D’altronde se non fossi quello di Jack Frusciante sarei
quello di Bastogne, per cui non cambierebbe niente. È una specie di
biglietto da visita; è come se ci fosse questo vizio da pigrizia
intellettuale per cui per designare una persona la devi associare a un suo
titolo, a una sua realizzazione.
È molto strano. Ti parlo da padre di quattro ragazze, di cui tre studiano
alle superiori; trovare Jack Frusciante sulle loro antologie del
liceo è abbastanza stupefacente. Mi dice qualcosa sul fatto che un libro –
un oggetto culturale in generale: un disco, l’opera di un artista grafico –
che nel momento in cui esce è controcultura, è alternativo, è d’avanguardia,
è di rottura rispetto alla tradizione poi finisce per esserci inglobato
dentro. Credo sia semplicemente un effetto del tempo che passa.
Per
quanto mi riguarda come autore è anche un monito riguardo il fatto che se ti
ripeti sei morto, artisticamente parlando, perché quello che nel ’94 era
novità nel 2020 è canone. È chiaro che a 46 anni non ho nessun interesse a
dipingermi come il giovane ribelle perché non sono più quella persona lì;
però la cosa importante è lavorare a qualcosa che tu trovi fertile ed è
difficile trovare fertile coltivare sempre lo stesso campo. Nel 2004 uscire
con un libro che parlava di un viaggio a piedi [Nessuno lo saprà.
Viaggio a piedi dall’Argentario al Conero] era qualcosa di inaudito,
oggi è molto più comune. La società è in movimento e sarebbe bene che tu
restassi in movimento seguendo la tua ispirazione e non cercando di
cavalcare le tendenze; ma se la tua ispirazione è sempre la stessa di quando
avevi diciassette anni forse dovresti farti due domande.
Per me la poesia, a quell’età, aveva molto a che fare anche con la canzone: le canzoni sono testi poetici in musica. Questa cosa è molto evidente in Bastogne, il mio secondo romanzo, quello è veramente un profluvio di citazioni.
In Jack Frusciante e da lì in avanti ci sono un sacco di citazioni nascoste, ma talmente nascoste che poi me le dimentico anch’io. Mi piace citare, nei miei libri, libri di altri o canzoni di altri – in fondo chi legge un tuo libro ti sta dedicando del tempo, la risorsa più preziosa che abbiamo, e vale la pena di valorizzare questo regalo mettendoci un po’ di easter eggs, di sorprese, che è come spargere dei semi: alcuni cadranno sui sassi e non succede niente, altri si infileranno in mezzo ai sassi e trovano un po’ di terra e danno vita magari a un singolo fiore, altri ancora cadono nella terra fertile e diventano una pianta rigogliosa, ma l’unica cosa che puoi fare è lanciare tanti semi, sperando che qualcosa fiorisca.
Non lo so, è una cosa a cui pensavo molto a vent’anni, come incasellarsi in
una qualche corrente eccetera. In realtà, per esperienza, penso che delle
correnti e delle definizioni è bene che si occupi la critica; io cerco
soprattutto di non considerarmi un autore. Io odio quelli che dicono «Ciao,
sono Enrico Brizzi, scrittore» – io non ho mai detto questa frase
–, perché se pensi a te stesso come un autore, finisci per guardarti da
fuori. Tu dovresti seguire, secondo me, il flusso di quello che senti
l’urgenza di fare – nel mio caso di raccontare – senza schemi,
perché altrimenti finisci per domandarti «Cosa penserà il lettore di questa
pagina?» mentre lo scrivi.
“Postmoderno”, “non postmoderno”,
“generazionale”, “autobiografico”, “autofiction”… sono tutte parole che
stanno bene in bocca a chi di mestiere classifica i libri e li giudica. Io
faccio un mestiere diverso, quello di narratore, e un narratore secondo me
non dovrebbe mai pensare a «Ma come mi vedono? Ma come sono?», perché se no
perdi totalmente la presa sull’autenticità – che è la cosa che poi,
personalmente, mi piace del lusso di poter raccontare storie: ha a che fare
con la libertà di poter raccontare qualunque storia ti viene in mente. Gli
autori che mi piacciono di più sono autori che hanno scritto lo stesso libro
o hanno spaziato in ambiti e angoli narrativi molto diversi tra loro? La
seconda, per quanto mi riguarda. I narratori felici sono i narratori che
badano a narrare, non a «Chissà che effetto farò alla critica questa
volta?».
Penso che possa avere senso oggi, ma già tra vent’anni sarà una categoria che sa di polveroso e di archeologico. Se si considera il corpus totale dei componimenti in lingua italiana che comincia con la Divina Commedia e arriva ai libri del 2021, il postmoderno inquadra una stagione concreta, già piena di cose, che va bene però per designare produzioni che spaziano su vari decenni. Quindi visto da molto lontano certamente ha senso; se guardi da vicino tutte le produzioni degli ultimi due o tre anni, o di quest’anno specifico, è tutto postmoderno. È una categoria che funziona; il postmoderno lo puoi dividere in tante stagioni diverse perché ormai è da parecchio che siamo postmoderni.
No, però il fumetto è narrativa. La graphic novel moderna, come la intendiamo oggi, di sicuro è una forma di narrativa – diversa dalla letteratura pura. Certamente vedo una differenza tra le strisce classiche dei Peanuts e Zerocalcare; le strisce classiche dei Peanuts sarebbe molto dura apparentarle in qualche modo alla narrazione scritta tradizionale perché hanno tutto un altro ritmo, tutta un’altra forma. La graphic novel contemporanea, che è la Satrapi o Zerocalcare o Frank Miller, è molto più debitrice della narrazione scritta pura e quindi certo va ad avvicinarcisi.
Purtroppo nel mondo della narrativa c’è, persistente, la tendenza a
prendersi molto sul serio. Parlando in concreto di narratori che conosco c’è
chi riesce a mettersi in discussione e c’è chi invece già a vent’anni ha
l’approccio del vecchio trombone e non vede l’ora di essere vecchio per
essere consacrato.
C’è una famosa definizione di Arbasino sul fatto che
in Italia si passa tre fasi quando si pubblica: la prima è la “brillante
giovane promessa”, l’ultima è il “venerato maestro” e in mezzo c’è una
lunghissima stagione in cui sei semplicemente “il solito stronzo”. Molti
hanno una gran fretta di liberarsi dalla definizione di “solito stronzo” per
arrivare a quella di “maestro”; per quanto mi riguarda – nonostante
qualcuno, ogni tanto, in maniera un po’ sorridente, mi chiami “maestro”– io
mi trovo bene nei panni del “solito stronzo”. Significa che hai una
produzione vivace.
[1] E. Brizzi, I lumi spenti: i giovani tra irrazionalismo e nuove mistiche, in R. Pazzi (a cura di), L’immaginario contemporaneo. Atti del convegno letterario internazionale (Ferrara, 21-23 maggio 1999), Firenze, Leo S. Olschki, 2000, pp. 19-25: 25.
Credo che non troverebbe un editore. Credo che ci sarebbero senz’altro
autori disposti a prestare il loro tempo e le loro conoscenze, anche a dare
una mano ai più giovani, però il senso di quella iniziativa editoriale stava
dentro un mercato editoriale che non esiste più. Quello che succedeva è la
stessa storia che è capitata a Jack Frusciante: perché c’erano
piccoli editori come Transeuropa o Theoria che investivano tanto sui
ragazzi? Da un lato per amore della ricerca, dall’altro, dovendo poi pagare
le bollette e in qualche modo campare, c’era anche un interesse pratico. Le
piccole case editrici erano la palestra ma anche la vetrina degli
esordienti; questo sistema virtuoso funziona fino a quando il grande editore
che ha il cash cerca i suoi giovani autori nel catalogo delle
piccole case editrici.
Oggi è difficilissimo che un grande editore vada
a pescare un autore ventenne o giù di lì nel catalogo di una piccola casa
editrice, perché come autori esordienti si cercano i cantanti di X Factor o
i fenomeni di Instagram o di YouTube che garantiscono un certo numero di
copie vendute. La differenza è che poi lo youtuber o il fenomeno di
Instagram il più delle volte di libri ne pubblica uno o due e poi buonanotte
al secchio; per loro la narrativa è un extra, condotto di solito con un
ghostwriter di fianco perché non hanno fatto la gavetta da scrittori e
quindi non conoscono il mestiere, non hanno nessun interesse.
Per certi versi non è cambiato niente da quando ero ragazzo io: i giovani
sono persone e sono molto diversi tra loro. Secondo me la categoria dei
giovani è un po’ una stronzata. Nel senso che ci sono dei giovani che sono
vecchi bacucchi prima ancora di fare l’esame di maturità e non vedono l’ora
di diventare vecchi perché li solleva da una quantità di tensioni morali, di
sperimentazioni per cui non sono portati.
Ci sono spiriti che sono più
portati a tutte le età, con i modi tipici dell’età stessa, a rispettare
quello che è stato il primo pensiero filosofico della civiltà occidentale,
che arriva da Corinto – nel bel mezzo di una serie di precetti pratici ti
arriva questa bomba totalmente metafisica che dice: «Pensa al tutto»
[Periandro]. Ecco, pensare al tutto lo sanno fare in pochi, perché molti
vivono nell’ansia, o nell’ansietta; chi ha l’ansietta a
vent’anni ce l’avrà anche a trenta, a quaranta, a cinquanta, a sessanta e
non avrà alcuna voglia di mettersi in gioco, è già vecchio in un certo
senso. Giovane è soltanto una categoria anagrafica.
È una questione
individuale e di gruppo, di squadra, collettiva… Ognuno di noi ha bisogno,
per vivere bene, di persone con cui fare squadra. Il romanzo è figo che sia
autobiografico nella misura in cui non è la tua autobiografia ma è
l’autobiografia di un noi, un’autobiografia collettiva – e per
avere le antenne dritte su queste cose devi essere capace di stare in mezzo
agli altri. Scegliersi gli amici, i compagni di vita, il fidanzato, la
fidanzata, la futura madre o il futuro padre dei tuoi figli è uno sport
rischioso ma molto affascinante.
Io sono cresciuto in anni in cui il ritornello era: «Guarda quelli del
Sessantotto, hanno fatto determinate cose, sono catalogabili in un
determinato modo. Guarda quelli del Settantasette: idem – ognuno con le sue
specificità. E poi guarda noi, oggi non succede più niente, il tempo è
fermo, si aspetta solo che arrivi il Duemila, nessuno si ricorderà mai di
questi anni». Poi passa un po’ di tempo e «Wow! I mitici anni Novanta!
Uscivano dischi della madonna, c’erano concerti che oggi te li sogni, c’era
una voglia di sperimentare che oggi non esiste più» e inizia tutto il
reducismo, per cui i miei coetanei si danno il tono del «Quando eravamo
ragazzi noi era un’altra cosa» – che potrebbe dire chiunque, perché è sempre
un’altra cosa, per certi versi.
E per altri versi invece i ragazzi sono
sempre ragazzi, in qualunque epoca, e in fondo cercano sempre tutti le
stesse cose: cercare la propria via, cercare di essere apprezzati per quello
che si fa con impegno, cercare dei riferimenti, sperare di essere riamati
dalle persone verso le quali ti senti portato dal tuo sentimento.
Poi,
ovvio, cambiano le cose: non avevamo internet, non avevamo i cellulari;
questo cambia anche proprio dal punto di vista narratologico, perché una
storia come Jack Frusciante all’epoca di WhatsApp sarebbe stata da
raccontare in maniera diversa, non c’è dubbio. Ma il vantaggio di essere nel
passato e non nel futuro è che non sai come sarà il futuro, per cui non ci
pensi.
Non puoi nemmeno cadere nell’errore commesso da tutti quelli che
aspirano a essere vecchi in fretta – «Ai miei tempi le cose erano belle e
oggi sono brutte» – perché per esempio, ai miei tempi, magari si faceva a
cazzotti fuori dalla scuola tra giovani comunisti e giovani neofascisti e la
nostra idea di politica era quella. Oggi i ragazzi scendono in piazza per
l’ambiente, una cosa molto più lungimirante, molto più inclusiva, molto meno
divisiva, molto più importante per tutti e molto più fertile; perché quando
vedi i ragazzi che si rifiutano di prendere la bottiglietta d’acqua di
plastica dicendo «Ma no, mi porto dietro la borraccia» stanno dando una
lezione anche a chi ha trenta o quarant’anni più di loro. Ogni momento ha le
sue sensibilità, alcune sono destinate a cadere nel dimenticatoio o
risultare patetiche dieci anni dopo, altre invece sono momenti in cui si fa
la storia: se non la Storia dei grandi eventi la storia del costume.
Io, personalmente, come lettore mi diverto molto di più ad assistere a una
presentazione in cui l’autore legge il testo – accompagnato o non
accompagnato da musicisti – che a presentazioni in cui l’autore spiega le
sue motivazioni profonde. Perché se pubblichi un testo che è fatto
esattamente così non è perché volevi “far passare un messaggio sotto mentite
spoglie”. È il testo che deve parlare, non l’autore. Poi magari è anche un
tipo che dice cose interessanti e vale la pena ogni tanto di stare a sentire
cosa dice, ma la sua specialità è che scrive dei testi complessi – perché un
romanzo richiede mesi, anni di lavoro – ed è bene che parli quello; chi se
ne frega di cosa penso della guerra nell’Ex-Jugoslavia o del matrimonio, mi
interessa di più una storia che è ambientata al tempo della guerra
nell’Ex-Jugoslavia o che tocca l’argomento del matrimonio.
Mi ha sempre
colpito molto un esergo che aveva messo Pier Vittorio Tondelli in uno dei
suoi libri [Rimini], che è una frase di Joe Jackson: «I’m just
an entertainer». Secondo me uno scrittore deve essere un
intrattenitore, non un maître à penser.
Quindi la dimensione
del reading rende omaggio alla parola in sé, alla scrittura in sé, alla
narrazione in sé ed è cento volte più interessante rispetto alla spiegazione
teorica di cosa pensi su determinati argomenti.
Sì, però consiglierei a ognuno di ascoltare quella che lo fa sentire bene. Io l’unica cosa che posso fare – a richiesta dei fan più nerd, più filologicamente appassionati al discorso – è mettergli lì una playlist dove ci sono uno dietro l’altro i brani citati nel libro; poi per qualcuno può significare qualcosa, per molti può significare niente, ma è una specie di extra per gli amici, solo per gli aficionados.
La ricordo come una cosa vera e la si può storicizzare con la data che i Red Hot Chili Peppers fecero a Milano nel ’95 [il 21 ottobre al Forum d’Assago]. Visto tutto il clamore che c’era intorno al romanzo in quel periodo, nella classica conferenza stampa venne fatta questa domanda ad personam a Frusciante e lui rispose – non ti so dire le parole esatte, ma il senso era tipo: «Sì, me l’hanno fatto vedere ma io pensavo fosse un libro su di me, invece non si parla affatto di me».
Penso che sia una schiavitù, un concetto minaccioso per la libertà
d’espressione, perché non puoi giudicare un testo narrativo con gli stessi
parametri di un elzeviro sul «Corriere della Sera». Se vuoi raccontare una
storia di ragazzi cattivi deve essere realisticamente una storia di ragazzi
cattivi. Conformare un progetto narrativo a dei canoni ideologici è tagliare
il ramo su cui si sta seduti, castrare completamente la libertà
d’espressione. Non credo che la satira debba avere dei limiti, non credo che
la narrativa debba avere dei limiti, non credo che la musica debba avere dei
limiti. Non bisogna confondere il piano della libertà d’espressione coi
valori civili che uno ha.
Cosa resta della libertà che viene dall’epoca
dei lumi e che è sfociata nell’idea della libertà d’espressione? Chi è il
controllore che può dire cosa si può dire e cosa no? Questo è 1984
di Orwell. Il mondo sognato da questi negatori della libertà è un mondo che
assomiglia a una dittatura, non è un mondo che assomiglia a «Non sono
d’accordo con quello che dici ma mi batterò fino alla morte perché tu possa
dirlo», che – per quanto la citazione sia del tutto fasulla – è una visione
con cui mi ritrovo molto di più. A me non distruba che ci sia in giro chi
non la pensa come me: stare sempre solo in mezzo a persone che la pensano
uguale a te è il contrario dell’evoluzione.
Le storie di Pazienza oggi
sarebbero pubblicabili? I poeti e i matti hanno libertà d’espressione totale
nel mio Paese. E poi come lettore sei libero di dire «Questa roba è
infelice, non mi dice niente», oppure farti una risata o addirittura dire
«Però, dai, questa visione così paradossale mi apre a pensieri fertili che
altrimenti non avrei fatto», ma la censura non può andare d’accordo con la
libertà d’espressione.
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